Cronaca di una caduta

Erano le 7:28 del mattino quando sono caduta di faccia.

La caduta, in realtà, è stata come tutte le altre: inaspettata e veloce. Da un momento all’altro mi sono ritrovata con la faccia per terra. Non vedevo nulla. Mi faceva male la testa e sentivo qualcosa di molto caldo sul viso. Sangue, tanto sangue. Mi sono alzata con cautela e molto dolorante. Mi sono toccata il naso e, vedendo tutto quel sangue e quella terra, ho pensato che il peggio fosse passato, che mi fossi rotta il naso.
Ero sola, ma tutta quella confusione dopo una caduta mi faceva sentire come se fossi in un luogo molto lontano e solitario. In cima a una montagna, lontano dall’umanità e da una mano amica che potesse aiutarmi a lavarmi il viso.

Non vedevo nulla e non riuscivo a trovare il cellulare in tasca per accendere la fotocamera e vedere il risultato della combinazione tra un passo falso e una superficie molto scivolosa, causata dalle condizioni climatiche di poco prima dell’alba sulla costa est della Tasmania.
Una signora mi passa accanto correndo e io, automaticamente, nascondo il viso nel berretto che indosso. Come se mi vergognassi, davanti a una sconosciuta, di essere stata così goffa da cadere di
faccia prima ancora di iniziare una camminata.

Osservo il suo percorso e, mentre recupero la coscienza, ricordo perché ero venuta lì così presto in una domenica d’inverno: per vedere l’alba. Così, con il berretto che reggeva il mio presunto naso rotto, ho iniziato a camminare molto lentamente verso il punto dove stava per sorgere il sole. Ho trovato una panchina, mi sono seduta, ho osservato dolorante l’alba e ho iniziato a piangere.
Faceva male, sì, ma la mia mente iniziava anche a riempirsi di paura. Paura di vedere il mio viso e scoprire il risultato di un errore, di una cattiva decisione, o semplicemente di qualcosa che doveva succedere per insegnarmi una lezione proprio nel momento in cui la mia autostima era al livello più basso. Il mio viso, allora, era la cosa che più mi piaceva di me. E ora, pensavo mentre tornavo verso l’auto, era rovinato per sempre. Quella parte di me che tanto curavo, la mia presentazione al mondo.
Il giorno cominciava a schiarirsi senza altri grossi inconvenienti e decisi di andare avanti con la giornata e chiedere aiuto. Camminai verso l’auto, trovai un bagno proprio all’ingresso e vi entrai per fare due cose urgentissime, ora che avevo recuperato la lucidità e dovevo attivare un piano: guardarmi allo specchio del telefono e lavarmi il viso.
Il danno era lì, proprio al centro del viso. Né troppo a destra né a sinistra per coprirlo con i capelli, né troppo in basso per nasconderlo con una sciarpa, né troppo in alto per metterci sopra il berretto. Al centro, come se l’universo avesse detto: “Facciamo le cose in modo equo, preciso, rendiamo questa una grande sfida.”
Guidai con il pianto trattenuto fino a casa della mia vicina. Pensai razionalmente che fosse più probabile trovarla sveglia lei piuttosto che i miei coinquilini. In fondo, erano le 8 del mattino di una domenica invernale. Quelle sono ore per restare a letto con 174 coperte e i calzini. Quanto sono fredde le case in Australia, maledizione. Busso alla porta. Niente. Suono il campanello. Ancora nulla. Decido di entrare – qui lasciano tutti la porta aperta, prima o poi mi doveva
toccare approfittarne – e i suoi cani mi accolgono curiosi. Michelle esce preoccupata dalla sua stanza.

Mi aiuta a lavarmi il viso, tira fuori una sorta di medicine e creme trovate nel suo kit di pronto soccorso poco aggiornato ma molto efficace per cadute di faccia stupide. Il pianto ritorna, ma lei mi dice tre cose con quell’accento australiano che tanto mi piace, tanto mi fa ridere e che a volte capisco poco, e finisco per asciugarmi le lacrime, ridere e dimenticare completamente perché mi sentivo triste. Ci sediamo nella sua terrazza con due tazze di caffè, quattro sigarette e tanto freddo.
“Che ti è successo? – chiede.”
“Sono caduta di faccia.”
“Come?”
“Non lo so. Ho fatto un passo, sono scivolata e pochi secondi dopo ero a
terra con il naso sanguinante.”
“E le tue mani?”
“Suppongo che non abbiano ricevuto l’informazione in tempo.”
Entrambe ridiamo. Michelle accende un’altra sigaretta.
“Far out. Suppongo che non sappiamo mai quando ci toccherà cadere
di faccia.”
La ferita intensa e visibile mi è durata poco più di una settimana, seguita da 3 o 4 giorni in cui non c’era traccia se non un piccolo taglio sopra il labbro. Ero al settimo cielo. Poi, 4 macchie si sono installate sul mio viso e mi hanno accompagnata, con molta determinazione, per 5 mesi.
Le macchie hanno preso passaporto e cittadinanza. A volte occupavano più spazio, a volte si scurivano, a volte avevo persino la sensazione che avessero una texture diversa dalla mia pelle. In mezzo a quei “a volte” recuperavo la lucidità e cercavo di convincermi che era tutto nella mia testa. Mi sono riempita di creme e l’atto di guardarmi allo specchio oscillava tra una sensazione di libertà, potere, tristezza e frustrazione. Ho iniziato a evitarmi o – meglio – a evitare di guardarmi.

Così, ho cominciato a camminare.
Nel cammino – anche se suona poetico e sembra uscito da un libro di autoaiuto intitolato “Come re-imparare a percepirsi”, che sicuramente qualcuno ha scritto e messo in vendita su Amazon – ho lasciato andare credenze e follie. Ho lasciato andare il disagio, gli attaccamenti, l’ego, l’irrazionalità di ciò che consideravo importante.

Ho imparato a osservarmi da un altro punto di vista, uno che non si concentrava sul mio aspetto fisico. Ho smesso di dare importanza alle macchie e queste, sentendosi poco apprezzate, hanno fatto le valigie e se ne sono andate.
E sì, sono pronta a cadere di faccia mille altre volte, ho preparato le mani e la mente per attutire il colpo.

Autore

  • Andrea Chirinos

    Comunicatrice. Anima libera. Scrivo micro racconti nel mio tempo libero, ma mi piace anche fare i saluti al sole, meditare, camminare, osservare come il cielo cambia colore al tramonto e contemplare tutte le fasi della luna. Ho un blog di micro racconti chiamato 'Aquellantonia.' Nel 2019 ho scritto e presentato l'opera teatrale ‘Y ahora, ¿cómo se lo digo?’al Microteatro di Lima. Successivamente, ho vissuto a Bogotá per alcuni mesi, poco prima della pandemia, per frequentare un corso di scrittura di sceneggiature, dove ho lavorato e ricevuto consulenza per il mio primo cortometraggio, ‘Platos Rotos,’ che ho terminato di scrivere lo scorso giugno. Nel 2020 ho scritto e presentato ‘Mascarillas,’ un’opera virtuale. Nel 2023 mi sono trasferita in Australia e attualmente sto scrivendo il mio primo libro, che prevedo di pubblicare nel 2025. Ho scritto ‘Peripecias,’ un micro spettacolo teatrale richiesto da studenti dell’Università PUCP di Lima; e anche ‘Medio Pecado,’ un micro spettacolo teatrale per il Microteatro di Buenos Aires, in Argentina.

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