Huaorani – Capitolo quattro

Keweriuno

Il programma era semplice e così articolato: alla presentazione di un progetto calato dall’alto del primo giorno, seguiva, nel secondo, un’assemblea decisionale alquanto passiva che raccoglieva i capi dalle varie tribù. Provai un po’ di pena, la tenni per me.
Gli ultimi due giorni erano dedicati alla festa, che riuniva sotto il suo braccio sport, sfide, canti e balli.
Sulla lancia una bambina mi sorrideva, mi faceva gli scherzi, cercava di distrarmi con il solletico. Io ricambiavo senza esclusione di colpi.
Sbarcando ci accorgemmo che avevamo già esperienza di quella sponda. Certo! Sono gli stessi a cui abbiamo regalato qualche giorno fa del riso, quelli a cui la piccola inondazione di notte aveva ribaltato la lancia e con lei il cibo, quello che serviva per la festa. Tranquilli, il problema fu risolto sempre grazie alla selva, generosa e rigogliosa: platano, yuka e monos (scimmie). Nei prossimi quattro giorni questi gli ingredienti della zuppa giornaliera, pasto unico, l’acqua proveniva invece dal fiume, dal fiume bruno.
Vedete, in una festa indigena tutto può accadere, come sposarti senza saperlo o ricevere un cazzotto inaspettatamente. Almeno questo era stato l’avvertimento di un’amica antropologa, Irene. Il segreto è farsi degli amici. Noi degli amici li avevamo già fatti: ad Apaika e a Wentaro. Ima, Carlos, Beba, Bai, Ruben, Bogui. Loro si preoccupavano per noi, tutto il tempo. I ruoli s’invertivano solo la sera quando, man mano che ingerivano cicca di yuka, acquisivano quel tipico dondolio. La fermentazione li gonfiava, variandone la silhouette, mentre l’alcol li arrossava: il tutto era decisamente buffo. Bogui, del team Wentaro come noi, vinse la gara di bevuta del litro di chicha… nove secondi, il secondo si fermò a tredici. Noi tutti eravamo molto orgogliosi di lui, mentre lui era molto concentrato a cercare un luogo dove vomitare.
Tra ballerine e ballerini, una figura catturò il mio sguardo, più attento del solito. Restava li, seduto, con espressione indomita e sognante.

Lui ha una storia per me.
Mi avvicinai con la piuma ben in vista come fosse un cimelio di un cacciatore ed iniziò a raccontare la leggenda della nascita dell’amazzonia.
Erano terre e foreste che ancora non conoscevano l’odore dell’uomo, ancora non avevano sentito il calore dei suoi piedi calpestare i suoi fiori né tantomeno il potenziale delle sue mani, uniche al mondo, o della sua immaginazione. Poche differenze correvano tra oceani e foreste, forse il colore, condividevano però l’immensità e la divinità. Diversamente da quello che ci si aspetterebbe ancora non scorrevano fiumi, nè il canto degli uccelli rompeva il silenzio. Ma da ogni parte dell’amazzonia lo potevi vedere: il ceibo. Sfiorava i cinquemila metri di altezza, il diametro ne toccava quasi i duecento in larghezza.
In cima c’era lei.
Non era sola. Posava regalmente su un nido, il cui diametro si misurava in metri più che in centimetri. Migliaia le uova. Lei la regina delle aquile arpie. Stava covando il dono più prezioso. Stava aspettando l’evento più incredibile.
Un giorno, in cui ogni condizione atmosferica possibile era contemporanea, il re degli alberi, decise di cadere. Rovinando al suolo scavò tutti i fiumi dell’amazzonia, dal più lontano rigolo fino alla foce del rio delle Amazzoni. Le uova si schiusero e da ognuna di esse nacque una specie diversa di fauna.
Awen, genitrice della biodiversità, vegliava.
Awen… dovetti scavare a lungo per ricordare dove avevo già sentito quel nome… nuovamente realtà ad immaginazione giocavano tra loro, io osservavo; mi affascinavano i vuoti e i pieni, le luci e le ombre, più che la verità.

Quanto era romantico sapere che da migliaia di anni, senza fotografie satellitari, avevano già intuito le geometrie sacre della natura. In questo caso padroneggiavano la similitudine tra un bacino idrografico e le ramificazioni di un albero. Vagando con il pensiero, mi dimenticai dove fossi.
L’odore di avena e uovo fritto mi ricompose come due mani con una scultura di
creta. Scesi dall’amaca e abbracciai Silvia e Bruno. Ben svegliato caro. Il giorno era arrivato, mi spostai nuovamente nel non verbale: lo sport. Che modo migliore per interagire e poi integrarsi? Che sia un campino in un remoto anfratto di una polverosa città o un erboso rettangolo nella cuore della foresta amazzonica, basta poco: chiedi all’arma più potente mai inventata, i bambini, di spargere la voce ed è fatto, quell’anonimo lotto si riempie di vita, di falli dal dietro e vendette necessarie, di
esultanze come se non esistessero problemi, perché avevi appena fatto la cosa più importante del mondo.
Un ultimo bagno nel fiume bruno per rinfrescare gli animi combattivi. Mentre mi spogliavo trepidante, le piccole creature, con una forza che non assoceresti mai alla loro età, si arrampicavano sulle piante aggettanti ad altezze folli, per poi lasciarsi cadere, cercando di fare più schizzi possibili. Io cercavo inutilmente le madri con lo sguardo. Non che io fossi preoccupato, ma fu istintivo.
L’ultima storia me l’ha regalata proprio un bimbo, Javier, il mio braccio destro nelle partite di calcio, il più pazzo. Piccolo ma invincibile. Lo fece con una scimmietta sulla spalla. Mi disse che il suo babbo aveva ucciso i genitori del piccolo primato, per mangiare, quindi era loro onere ora curarsi dei cuccioli fino a che non saranno abbastanza forti da essere rilasciati nella foresta, liberi. Non serve una penna e un foglio per fare poesia, quest’atteggiamento cantava il far parte di un ecosistema con responsabilità. Magia.

Le sfide di lancia, cerbottana, cinquanta metri stile nel rio e arrampicata su un albero (senza rami) terminarono, decretando un vincitore per categoria. Ma come già sapete, Bogui aveva portato a casa il trofeo più importante. Ciò che non arrivò a casa fu invece lui, almeno non prima che passassero due giorni di amaca per evidente eccesso di alcol nel corpo.
Purtroppo per noi l’ora di tornare era giunta, con o senza di lui. Mi accorgevo che, leggendo i volti, quei lineamenti mi parlavano di brevi storie che in quei giorni di festa ci avevano legati, alcuni mi ricordavano leggende, altri scherzosi momenti. Mi sono ricordato anche di quel momento, dove avrei voluto fare una foto spaziale, ma non avevo con me la Fuji. Bruno, avvicinatosi con il suo fare spensierato e leggero che lo contraddistingue, mi parlò. L’importante è registrare le immagini qui e
qui, toccandomi rispettivamente la fronte e il petto… il qui e ora, promesso alla luna di maggio.
Immerso nei miei pensieri, sentii una pressione di quello che poteva essere un piccolo indice sulla schiena. Ruotai e vidi una grossa faccia arancione senza occhi, né naso. Dietro la papaia il ragazzino che il giorno prima mi aveva riempito la borraccia in un momento di crisi di sete con Silvia, persi nelle visioni del futuro. Dovete sapere che qui hanno leggere doti telepatiche che il noioso occhio scientifico giustificherebbe con la grande attenzione che hanno per i dettagli… sta di fatto che da più di ventiquattro ore sognavo frutta fresca della chakra. Fu il dono più significativo di questi giorni, per il suo sorriso e per la sua luce, per la storia vecchia come il mondo che meno hai, più dai.
Tanto prezioso è un dono, altrettanto deve essersene la condivisione; accadde a pochi minuti di distanza con il team Wentaro che tornava alla base. Ruben, Silvia, Bruno e due piccoli vicini di casa Ewea e Sako. La divisi in sei.

Autore

  • Luca Persico

    Nasco dall'incontro della tradizione Bergamasca e dell'Appennino Tosco Emiliano. Nelle lunghe estati, immerso nel borgo medioevale in pietra e nei castagneti secolari, mi sono innamorato dell'architettura, della buona cucina casalinga, degli alberi, dei fiumi e delle avventure. Ora progetto architetture naturali, viaggio in bici per conoscermi e per continuare a reincantarmi. Nel mentre scrivo, fotografo, disegno e scolpisco. Il tutto profondamente convinto che il migliore investimento siano le relazioni, il saper fare arte e il saper sentire.

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