Wentaro

Tenevo la piuma bianca e nera sul copricapo, cacciavo con David con la cerbottana di panbil e piccole frecce imbevute di curaro. Scimmie e roditori giganti passavano veloci senza lasciarmi la possibilità di prendere la mira… due occhi. Feci un salto indietro e mi pizzicai con la mia stessa freccia. Nella stanza Silvia e Bruno dormivano ancora, David stava già sistemando la lancia per raggiungere la comunità che ci avrebbe ospitato.
La pioggia della notte aveva fatto crescere il fiume tanto da renderlo irriconoscibile.
Ma come avrete capito, David non vedeva mai pericoli, solo condizioni di un tipo, piuttosto che di un altro. Così sono gli Huaorani, senza preoccupazioni, né per il dopo, né per il prima; non
programmano, agiscono rispondendo ai bisogni giorno per giorno, la selva e l’assenza di stagioni fanno il resto.
Non con meno difficoltà del giorno precedente, approdammo alla comunità di Wentaro, dove ci aspettavano da qualche tempo in seguito agli accordi presi da Silvia. Ad accoglierci due bimbe e, all’istante, il padre. Sui loro volti perplessi era chiaramente stampata la verità: nessuno in realtà ci aspettava.
Chi siete? Che cosa volete?
Niente era com’era stato organizzato, ma tutto funzionava, bastava un po’ di pazienza. Io ero tranquillo, Silvia e Bruno anche. David mediava. Vi attende il presidente.
Ruben arrivò serio, come se lo avessimo scomodato da importanti affari. Noi stavamo condividendo un ananas con un bel gruppetto di bimbi. Un semplice dono ed eravamo già ottimi amici, almeno con i piccoli: con loro è tutto più facile.

Nonostante le poche parole dell’indisposto capo, egli decise di buon cuore di ospitarci.
Cavolo! A casa del presidente, che onore.
Solo in seguito scoprimmo che, non solo lui non ricopriva quella carica, ma tale investitura non era neanche di prestigio. È un concetto occidentale il prestigio. Qui se ne fottono di quelle maschere. Il vero capo tribù ci avrebbe atteso la sera stessa per il benvenuto, sempre informale. La curvatura e il dondolio dell’amaca mi fecero navigare sul rio. Lì, un’altra
delusione… arrivare all’alba, cioè dopo che, durante l’aurora, il colibrì si disseta. Nella loro leggenda sacra significava un fiume che aveva già perso l’energia lunare. Il bagno, ricorda bene, prima del colibrì. Lanciavo l’amo, la piuma in tasca, ma non abboccò nulla. Una luce in mezzo alla laguna, fui pescato e trascinato nell’acqua e… il soffitto in foglie di palma.
Il fumo del piccolo focolare adibito a cucina inondava la zona notte, era la nostra sveglia. Le giornate passavano lente, piene di profumi e suoni a me estranei.
Di giorno diverse tipologie di primati conversavano sulla stranezza dei nostri visi e sulla forma familiare di certe nuvole, i tucani decretavano che gli ara ostentavano i loro colori provocandogli invidia, i serpenti equis si mimetizzavano furbescamente nel fango ingannando il mio sguardo.

Quello di Ruben, al contrario, era fulmineo: li smascherava e puntualmente li colpiva con il bambù. Nel mentre, parlavo con lui. Non faceva grandi discorsi. Le sue frasi erano soppesate, tremendamente giuste, sostanzialmente pratiche. Ho spesso legato la profondità di una persona alla sua capacità di esposizione e alla complessità della filosofia espressa. Ecco. Ruben era estremamente profondo, ma nello sguardo. Lui ti guardava. Dentro quel color caffè, potevo leggere tutta la sua conoscenza antica.
Profondo era il suo rapporto con il suo ecosistema, come il suo cuore per la famiglia.
Profondi i suoi sensi, è un po’ come se potesse sentire la voce di tutte le cose. Non di
rado indicava zone del bosco, dove evidentemente per lui c’era qualcosa; dal punto di vista di noi europei, invece, tutto taceva.

Ero affascinato da quel mondo tanto antico ma tanto simile a qualcosa di scritto nel DNA dell’uomo. Era come guardare il fuoco, che chiunque incanta e ipnotizza nella sua danza millenaria.
Piantammo l’arancio in una “minga”, termine che significa lavoro comunitario, segno di riconoscenza e amicizia. Ruben, con suo cugino Bogui, m’insegnò a costruire lance e cerbottane di panbil, una pianta fondamentale anche per le loro costruzioni, a riconoscere i suoni della foresta, a interrogare il fiume e il vento. Reggevo gli sguardi intensi, perchè significa essere pronti a esporsi, nudi, più che sopportare qualcosa dell’altro. Piano piano che mi avvicinavo a lei, vicendevolmente lei lo faceva con me, e piano piano la piuma perdeva di lucentezza.
Immerso in viaggi pindarici, arrivava sempre una manina a tirarmi la maglia, per riportarmi sulla terra; parole, ragionamenti, costrutti logici… non con i bimbi, in generale e in special modo qui. Per entrare in connessione con loro è necessario trascendere la conoscenza di un idioma specifico, accedendo al mondo del non verbale. Cinque bimbe, di cui una in fase di svezzamento, l’una diversa dall’altra ma ugualmente curiose di conoscere questi strani umani, più alti del normale e più
bianchi di quanto si aspettavano. Guardare negli occhi e sorridere (forse un retaggio
di mamma) e dipingere insieme con gli acquarelli la propria quotidianità, che per loro
riassumeva alberi, animali, frutti, fratelli, sorelle, amici, mamma e papà, il fiume e
quella vecchia e rara pietra nel bosco dove, sedendosi, si sentono uniche. Un bagno al
calare del sole mentre i colibrì adornavano i cespugli in fiore e un tuffo ancora, punzecchiarsi a vicenda e arrampicarsi sugli alberi.

Non ho mai visto una persona che, salendo su un albero, si rattrista. Mi ricorda Thoreau che inneggiava al fatto di “ergersi più spesso sugli alberi e guardare lontano, per guarire”.
La pioggia cadeva. Ogni goccia colorava il terreno con un pigmento diverso. Man
mano che mi allontanavo, questi piccoli segni colorati si riordinavano in macchie, le
macchie in forme complesse, pareva un quadro che avremmo facilmente associato al puntinismo.
Chi mi stava facendo volare? Mi voltai di scatto, la piuma quasi mi scivolò dal
taschino.
Awen, solo un nome mi rimase… la luce mi destò, o viceversa; i sogni per un momento sembravano aver preso la forma della realtà, il legame era sempre più intenso. Forse era questa la chiave per contattarla? Forse nella vita per danzare è sufficiente lasciarsi trasportare dai sogni e non discernere ciò che è “reale” da ciò che è “immaginario”.
Mi ero addormentato sul far della sera mentre preparavo lo zaino. A breve saremmo dovuti partire per la grande festa degli Huaorani, ospiti della comunità di Keweriuno.
