Huaorani – Capitolo due

Apaika

Riavvolgo i pensieri, era sabato. Arrivammo da Tena al Coca con un bus notturno il giovedì. Parlo al plurale perchè eravamo un trio: oltre a me Silvia, un’amica di vecchia data, aria, e Bruno, marsigliese, acqua, come i suoi occhi. Portavamo con noi Giulia, Mattia e Irene, amici distribuiti nella regione del Napo, immersi nei loro progetti di cooperazione internazionale. Ce l’avevano anticipato che niente sarebbe stato come avevamo programmato. Infatti, avremmo dovuto incontrare Megatowe, un amico, al terminal alle sette, siamo finiti per incontrare David, il padre, ad un benzinaio alle dodici del giorno dopo. Tutto ordinario, come ordinario era quest’uomo di mezza età e mezza altezza dall’occhio vitreo, ammalatosi, a suo dire, per una maledizione di una sciamana invidiosa della sua intelligenza. Risolse rivolgendosi, inevitabilmente, ad un curandero perché “la medicina bianca non aveva effetto”: si trattava di qualcosa di antico.

Comprati gli undici galloni concordati per la lancia e recuperato il cibo che doveva simboleggiare, insieme all’arancio, il nostro dono alla comunità ospitante siamo scimmiottati sopra una camionetta di fortuna che condivideva con noi la direzione e poco più. Ci ripetevamo spesso la centralità del dono, perché entravamo da amici, non da turisti: niente soldi a far da tramite, niente servigi da parte loro nei nostri confronti; eravamo integrati senza filtri nella loro quotidianità. Amareggiati, ma comunque con un bel sorriso, siamo partiti per la via Auca, la soleggiata e terribile strada dei petroleros e dei mecheros; stavamo entrando finalmente nel cuore dell’Amazzonia e delle sue contraddizioni.
Giunti all’intersezione con il fiume stretto e bruno siamo costretti a cambiare mezzo. Salimmo dondolanti su una lancia, una canoa in vetroresina dotata di motore, iniziando a progredire facendo uno slalom dopo l’altro, serpeggiando magistralmente nel torbido fiume amazzonico.

Passare dalla via asfaltata a quella acquatica mi accese un istintivo sorriso selvatico. Al timone mister David, sempre l’uomo della macumba, il cui occhio singolo funzionava meglio di due dei miei: gli Huaorani, etnia cui appartenevano lui e tutte le comunità a seguire, hanno sensi più sviluppati dei nostri oltre che essere fisicamente più forti. Potete crederci o no, ma così è. Tuttavia meno di un tempo, a suo dire, dopo che arrivarono le tre calamità. Il sale che addomestica. Lo zucchero che corrompe. L’olio che indebolisce.
Il fiume era in secca, questo significa poca corrente, quindi facilmente ripercorribile se non fosse per le piante sradicate che sole navigavano il rio nel verso opposto al nostro, il che comportava il nostro procedere singhiozzante sopra descritto.
In sintesi, stavo vivendo un sogno: navigare per uno sperduto fiume amazzonico, circondato
per chilometri e chilometri da foresta primaria impenetrabile, al tramonto, con due amici e un indigeno come guida. Ecco perchè quel sorriso. Tastai la piuma. Se non fosse stato per il suo sguardo così severo e penetrante, avrei anche fatto una piccola siesta, ma non potevo concedermelo, non ancora.
Si fa notte presto: al liceo imparai che all’equatore il sole scende più velocemente
perché perpendicolare e, almeno agli equinozi, la luce dura esattamente come il buio,
dodici e dodici ore.

Approdammo alla prima comunità: Apaika. Le tribù meno remote si sviluppano guardinghe lungo gli alti argini dei fiumi Shiripuno e Wentaro in questa zona verde e selvaggia dell’amazzonia Ecuadoriana. Quelle più remote sono costituite, invece, gli isolati volontari, quelli che hanno deciso di non avere contatti con l’occidente: non si farebbero problemi ad ucciderti se ti vedessero, ma per loro la morte non è un tabù, come da noi. Non rimproverateli.
Entriamo.

Era esattamente ciò che immaginavo: l’odore di fumo, due abueliti Beba e Bai, così li chiamavamo per intenderci, che emanavano un’energia intensa e antica, contraddistinti da uno spirito soave e tondo, attorno cui danzavano gli altri componenti della comunità, meno saggi ma non meno importanti, Ima e Carlos.

Qui penso.
Questa è realmente una società tradizionale, ricordando le pagine ingiallite del libro di Jared Diamond che durante il covid mi ha cullato lo spirito e che mi è costato una sospensione dai servizi bibliotecari. Certo, hanno due pannelli fotovoltaici donati da chissà quale progetto di benevolo aiuto che superficialmente aveva già lasciato il territorio. I giovani, continuando, posseggono il cellulare, ma come negarglielo? Internet ha ormai mostrato tutto il mondo a tutti i popoli, con conseguenze annesse.
Lì, però, vi assicuro che si respirava un disegno antico. Questa sensazione atavica era
calda e rassicurante. Era un mondo duro, ma libero.
Chiusi gli occhi, avevo ancora in bocca il sapore della bevanda gentilmente offerta,
chicha di yuka (mandioca), una sorta di purea fermentata dell’omonimo tubero… nel
mentre i suoni della selva mi ricordavano dove ero e chi mi osservava.

Autore

  • Luca Persico

    Nasco dall'incontro della tradizione Bergamasca e dell'Appennino Tosco Emiliano. Nelle lunghe estati, immerso nel borgo medioevale in pietra e nei castagneti secolari, mi sono innamorato dell'architettura, della buona cucina casalinga, degli alberi, dei fiumi e delle avventure. Ora progetto architetture naturali, viaggio in bici per conoscermi e per continuare a reincantarmi. Nel mentre scrivo, fotografo, disegno e scolpisco. Il tutto profondamente convinto che il migliore investimento siano le relazioni, il saper fare arte e il saper sentire.

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