Appunti rubati alla strada

Questo scritto è un estratto di un diario di bordo che ho tenuto durante il lavoro di unità di strada nei mesi invernali del 2019, poco prima della pandemia. Ci troviamo alla Casa dell’Ospitalità di Mestre, un dormitorio che da dicembre a marzo accoglie solo per la notte persone che vivono in strada.

Le strade di Mestre si srotolano veloci davanti al furgone. Per me che sono abituata a Milano, Mestre è una piccola cittadina, percorribile anche a piedi in poco tempo. Eppure, il team ingegnoso incaricato di inventare l’urbanizzazione di questa città, ce l’ha messa tutta per renderla più complicata di come ce la si possa aspettare, più ingarbugliata del previsto. Forse si sono messi d’impegno, giusto per rendere le cose più frizzanti, in un luogo che, in effetti, non ha troppo da offrire se non case e strade. Di fatto, mi sono divertita a imparare i percorsi, le scorciatoie, e ora Mestre è un po’ più casa.

Le uscite di turno avevano, per un verso, il tipico aspetto della routine. Il passaggio a prendere Denius era la certezza che in qualche modo teneva cucita tutta la serata. È capitato, uno degli ultimi giorni, che lui si fosse allontanato un attimo dal solito posto davanti alla biblioteca in Carducci. È stato un secondo, ma eravamo già in allarme, già preoccupati di non trovarlo. Denius, o meglio, “Denius Enius” com’è scritto nel database online del servizio.

Qui c’è questa modalità di modellare i nomi in base all’esperienza diretta della relazione, e sempre va a finire che i nomi calzano a pennello con le persone. Sicuramente lui sul documento avrà scritto il suo nome completo, ma a noi va bene così, ci piace il soprannome, il nome che lui si dà o che noi gli diamo. Non ci importa troppo di cos’è ufficiale o burocratico e quindi diamo ai nomi il senso profondo delle relazioni, come Daniel Kowalski, che ognuno di noi annotava in modo diverso.

Denius. Quando arrivi in Carducci si vede prima il suo carrello che lui. È la sua casa, tutti la chiamiamo così e chissà veramente cosa c’è dentro quel borsone nero di cuoio che ci tiene sopra. Denius è il suo ciccotto raccolto dal posacenere, custode silenzioso delle pause degli studenti. Denius è il benzino nel cartone, le pisciate plateali, le bombe – come le chiamava -, gli sputi a due centimetri dalle mie scarpe.

Io e Daniel Kowalski

Nessuna convenzione o tabù sociale valgono qui con lui e questo è un respiro di sollievo. Questi sono i suoi rituali e si può star certi che non mancherà ogni sera di coinvolgerci nel suo repertorio. Motherfuckershit è il suo saluto e il suo incalzarti con lingue diverse, dal francese, allo spagnolo, al lituano è il suo modo di comunicare. Vengo catapultata in linguaggi di confine, sperimentali e mi va bene così, non mi importa capire o non capire nel senso razionale, piuttosto voglio esserci, starci, fare mio questo linguaggio.

Spesso quando torniamo con Denius al dormitorio troviamo Christian, un uomo, era un operaio tubista che lavorava sulle navi. Sei anni in Spagna, poi a Genova, prima in Romania. Ha mani robuste e la pelle custode della vita di mare e di pesi sui muscoli. Mi guarda dritta in faccia con uno sguardo d’intesa, bevuto nei cartoni di vino rosso dell’IN’S.

Stefano ha un progetto di mostra di fotografie che, dico io, mostrerebbero un aspetto quotidiano, vero, della vita delle persone che vivono in strada. Se avesse un titolo, la chiamerei “Il lato vero delle cose”. Sono foto di cartoni di vino lasciati in strada, nei bidoni, nell’erba, dove capita. Mostrano il lato umano delle vite nelle strade, superando non solo la visione ideologica mitizzante dell’homeless per scelta, ma anche la retorica assistenzialista racchiusa nella parola, pronunciata con enfasi e fischiata verso il finale, “Poverinooo”. Mostrano persone la cui vita ha avuto una certa traiettoria, un dato di fatto, è così, in un contesto che tende o a omologare o a espellere.

Ricordo un giorno, quando ero di turno in accoglienza in dormitorio, che tra i primi ad arrivare c’erano Christian e Josef. Ho detto a Dani, con tono scherzoso, quasi a voler sminuire quelle parole, che ogni volta che guardavo Josef bere il tè, avrei voluto fermare il tempo e scrivere una poesia su quel gesto. Lui mi ha guardata con quel suo sorrisone, così intenso, che avrei voluto scappare via. Cosa ci sarà mai di poetico “nella vita di strada”? – mi chiedo. Perché devo rendere arte, poesia, bellezza una realtà dura e aspra, che è la vita di persone, che nemmeno mi immagino? Che ne so io di quel tipo di vita? Josef, però, è poetico in tutto quello che fa. Costruisce i passi sulla strada con leggerezza. Domina le sue gambe magre con l’arte della delicatezza, con l’arte di chi sa vivere nell’incertezza. Josef mi inchioda con quello sguardo e mi sento più vicina a lui.

Autore

  • Maddalena Martini

    Maddalena Martini (1992) è operatrice interculturale e assistente sociale. Più di tutto ama e studia il teatro dell'oppresso, strumento collettivo di liberazione sociale e artistica, e la permacultura, metodo di progettazione del territorio. Scrivere è da sempre il suo più intimo e, ormai non più, segreto dialogo con se stessa.

2 commenti su “Appunti rubati alla strada”

  1. Articolo interessante e acuto. Ci invita a considerare altri aspetti del nostro vivere. Altri sguardi, e importanti confronti. Grazie

  2. Quante volte ci capita di vedere vite che vagano per il mondo…non possiamo capirli ma offrire a tutti noi una lettura poetica delle loro esistenze può contribuire a restituire loro la dignità di ogni essere umano. Grazie Maddalena e grazie a tutti coloro che decidono di esserci… comunque.

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