
La penisola della Guajira è un luogo di frontiera. È la zona che si trova più a nord del Sud America, frontiera con il Venezuela e con il mar caraibico. Per entrare nella Guajira inoltrata, bisogna viaggiare un paio di giorni in terre desertiche fatte di dune, lagune, saline e cactus, che in lingua wayuunaiki si chiamano yosu. Mi è difficile immaginare come si possa vivere in quelle terre dai colori intensi e battute dal forte vento carico di sabbia.
Viaggiamo per tre giorni su una jeep 4×4, compagna fidata della nostra guida wayuu. Andris è nato in quelle terre, che gli hanno insegnato a orientarsi anche di notte per trovare la strada. Con le sue poche parole e la sua calma, ci racconta come si vive lì.
Partiamo da Riohacha, la capitale del dipartimento. Da quel momento, tutte le strade sono sterrate, piene di buche, rocce e sabbia e la nostra macchina diventa totalmente parte della nostra esperienza. Spesso incrociamo non solo altre jeep con gruppi di turisti, ma anche automobili e moto carichissime di pacchi e persone, che sfidano la legge di gravità e altre varie leggi scientifiche, ovviamente a me sconosciute, chiedendomi come diavolo faranno 4 ruote e una scatola di metallo a sostenere tutto quel peso.

La prima tappa sono le saline di Manaure, immense distese di acqua color corallo, piatta e calma. Il colore rosa delle saline è dovuto ad un microorganismo chiamato artemia, banchetto prelibato dei camarones. Le saline sono una delle principali fonti economiche per molte famiglie della bassa Guajira. La loro attività artigianale di lavorazione del sale con un processo consolidato nel tempo, viene minacciato ogni giorno dalle moderne tecnologie di estrazione del sale di aziende straniere e da normative introdotte che vietano l’utilizzo di alcune di queste tecniche artigianali. Minacciati sono anche i terreni, che spesso vengono comprati a prezzi stracciati per costruire grandi pale eoliche la cui energia, solcherà quelle terre e andrà nelle case di qualche altro dipartimento. Alcune terre, invece, sono state usate per costruire una lunga e unica ferrovia che dalle miniere trasportano carbone fino al porto. Non ci sono treni per il trasporto delle persone, qui tutti si spostano in auto oppure a piedi.
Risaliamo in macchina, cullati e frastornati dal ritmo allegro del vallenato, uno dei generi musicali più ascoltati in Colombia e di cui Andris va matto. Con lui, la sera, andiamo a incontrare una famiglia wayuu, che ci accoglie nel giardino della loro casa a Cabo de la Vela. Parliamo con la figlia più grande, si chiama Alexia. È felice di incontrarci, sente il valore di raccontare e diffondere il modo di vivere e pensare dei wayuu.
Racconta di una popolazione antica, un tempo nomade, che da sempre ha abitato il territorio della costa che ora comprende sia la Colombia che il Venezuela. La maggior parte delle persone si spostava in base alle stagioni, ma nel Novecento moltissimi vivevano nei territori dell’odierno Venezuela. Con la crisi economica, politica e sociale venezuelana, molte famiglie hanno scelto di spostarsi nella penisola colombiana, nonostante le difficili condizioni climatiche ed economiche. Molte famiglie vivono di artigianato e sono legate al turismo, altre lavorano nelle saline o allevano capre.
Alexia ci racconta di un forte senso di appartenenza alla famiglia, la chiama clan, con un proprio totem rappresentato da animali. Lei fin da piccola, come tutte le donne della sua famiglia, ha ricevuto gli insegnamenti da sua nonna su come lavorare la fibra con cui creare pezzi unici di artigianato, dalle borse alle speciali amache chiamate chinchorros. Il chinchorro è il letto che li accompagna per tutta la vita. Viene tessuto per ciascuna nuova nata e nuovo nato dalla nonna, in un lavoro prezioso fatto di minuzia e pazienza. Vuole insegnarci alcune danze tradizionali e potenti, i cui passi imitano il muoversi di diversi animali. Con indosso alcuni loro vestiti tessuti a mano, proviamo goffamente a muoverci al ritmo del tamburo con il suo suono opaco, solenne e incalzante.
Dopo questi incontri, mi resta sempre quel senso di apertura e di antichità, capace di dare più senso alle cose. Mi addormento così, accoccolata in un chinchorro tutto colorato. Sullo sfondo il lento e costante suono del mare notturno mi accompagna in un sonno profondo.

La mattina dopo molto presto, assaliti dal caldo, risaliamo in macchina. Viaggiamo per molte ore su strade che non esistono, seguendo tracce di carreggiate create dalle intuizioni artistiche di altri esploratori di quel deserto. Intorno crescono cactus e arbusti spinosi, che ospitano, sotto le loro sottili ombre, giacigli per capre solitarie, vivaci ma stanche di quel caldo bollente condito di vento e sabbia. La nostra macchina sfreccia al loro fianco, indifferente. Rombando velocissima, non lascia altro che rumore e l’odore artefatto della benzina.
Questa corsa stile Gran Turismo viene bruscamente interrotta da una corda tirata tra un capo e l’altro della strada. Ci fermiamo. Non capisco nulla di cosa succede, tutto è nuovo e strano, anche se me l’avevano detto. Quattro mani si avvicinano al nostro finestrino. Chiedono qualcosa, vogliono ricevere con foga, non ammettono rifiuti. La maggior parte sono bambini e bambine, possono essere anche molto piccoli, altre volte sono le loro madri o le nonne, che ci chiedono senza parole e senza sguardi qualcosa da mangiare, mentre si riparano dal sole sotto piccoli rifugi di canne e paglia.

Ogni giorno varie generazioni di persone attendono che passi un’auto per sollevare la mano e ricevere biscotti, panela, un pacco di arroz, lenticchie e acqua. Noi li avevamo comprati il giorno prima in una tienda a Uribia, ultimo avamposto urbano prima del deserto. Mi sentivo a disagio, non sapevo né cosa comprare nè perché, ma così ci aveva raccomandato Andris, di prendere biscotti per i bambini, ce ne saranno tanti, ha detto. Io non capivo bene, non sapevo immaginare dove, quando e quali bambini avremmo incontrato. Ora ho capito. Apro il finestrino e sporgo un paio di pacchettini di biscotti al gusto mou a due bambini. Piccolo inciso: questi biscotti sono buonissimi, sono un concentrato di godimento. Li ho assaggiati e volevo scofanarmeli tutti, alla faccia dell’altruismo, solidarietà e tutte cose.
Tra i due bambini, uno mi pare abbia 10 anni (penso che ha la stessa età di mia sorella), l’altro è un po’ più piccolo, sorridono ma non mi parlano. Inizia da questo momento un rituale fatto di caselli stradali di corda, di mani tese al finestrino che si abbassa con fatica perché è rotto. Un rituale fatto di biscotti, sorrisi e mille dubbi nella testa, mille domande, contraddizioni, disagio. Inizia e finisce dopo due giorni, quando lasciamo alle nostre spalle la penisola, quando sempre più persone ci chiedono acqua e non biscotti. Infatti, trovare l’acqua in queste terre è dura, è sopravvivenza pura. Per me è difficile immaginare come dev’essere, dato che ho sempre avuto l’acqua, l’ho data per scontata e l’ho sprecata.
Dopo tre giorni lasciamo questo rituale, lasciamo la sabbia e il vento e torniamo all’asfalto. Quello che non lascio è questa sensazione di complessità che mi ha dato l’incontro con questa terra e con queste persone così diverse da quelle a cui sono abituata. Non lascio nemmeno quel senso duplice e contrastante della forza del vento che batteva sulla cima di una collina sul mare, il posto più sacro per i wayuu, dove i defunti si recano per liberare le loro anime. Sulla collina, il vento, così forte da farmi ondeggiare violentemente, è voce al tempo stesso di libertà e di terrore. Come tutte le esperienze potenti e profonde.

Grazie per quello che ci state raccontando, per come scrivi, sincera e sensibile. È bellissimo leggerti e seguire questo blog.
Le tue parole mi fanno immergere in un mondo… inimmaginabile….. vento, corde, bambini, acqua, biscotti… parole apparentemente..neutre…ma da quello che hai vissuto e scrivi utili anche a me per riassaporare con più consapevolezza il mio quotidiano…essere… grazie Maddalena…sei preziosa…