Quello che mi resta della selva

Viaggio nel Parco Nazionale Yasuní – Ecuador

Raccontare della foresta è una sfida. È una prova concettuale e terminologica, non ne afferro l’essenza, non racconto davvero quello che è, ma ci provo. Lo faccio per tenerne memoria, per non dimenticarmi di quel senso di pienezza e stupore in me. Lo faccio per provare a farne assaggiare un pezzetto a chi nella foresta non c’è stat*. Ne scrivo per riconoscerne l’immenso valore, per darle voce, per ricordarmi (o ricordarci) di non dimenticarla, soprattutto ora che sto in città, in questo mondo di cemento e rumore e fretta.

Non c’è nessun altro luogo
in cui vorrei essere
Qui nella foresta
la vita.

Splende della luce
Risuona il silenzio
sonoro
della foresta.

Tra me e lei
una distanza visibile
una frattura di secoli
di confini.

Qui annega la città
Lo spazio si estende
In me nel sangue del mondo
respira.

Respiro piano. È notte qui nella foresta, il buio mi invita a chiudere gli occhi e aprire le orecchie ai suoni e ai sogni. Eppure non riesco ad assopirmi, la foresta di notte mi attrae e mi intimorisce, è ignota e oscura. Il silenzio risuona di tante creature notturne, è un concerto al naturale, senza casse né biglietti, che mi culla e risveglia allo stesso tempo.

Respiro piano. Forse c’è un giaguaro là fuori: oggi abbiamo visto nel fango una sua impronta. Chissà se sente la nostra presenza, i nostri respiri, chissà cosa sta facendo. Il giaguaro, da sempre immaginato stilizzato, ideato in bidimensione, pensato nei racconti, ora è intorno a me, vero. Realizzo questo pensiero, che mi sembra l’illuminazione più geniale del secolo, ma forse è così ovvia. C’è un mondo intero tra questi alberi, un mondo da me ignorato per trent’anni, un mondo che non esisteva nella mia vita di prima, ma che ora è qui. Io sono qui, ospite indiscreta e al tempo stesso parte integrante di questa infinita vita naturale. 

Respiro piano. Ali tuta. Buonanotte. 

Sono seduta sulle radici di un albero grande, forse è un matapalo, di quelli che crescono a fianco di altri alberi e poi ne inglobano il tronco, avvolgendolo e strozzandolo. Piccoli puntini rossi vedo spuntare dalla mia pelle, prudono e mi spaventano, ma non mi abbatto, sento una forza strana. Sono l’origine di piccole piantine, foglie che sbucano dalla mia pelle e fanno spazio ad un piccolo fusto. In un attimo, mi ritrovo ricoperta e pervasa di piante, tra timore e gioia infinita. Mi sveglio.

Mi sveglio con i pensieri persi nel sogno vivido della notte. Uaponi babeche, buongiorno. Sono le sei, ma sembrano le nove, perché qui all’equatore il giorno arriva senza preavviso, spalancando la porta e le persiane. Il concerto notturno è finito ed è iniziato quello del giorno, tra lo sfrullallare delle oropendule, dei loros e di moltissime specie di uccelli di cui non ricordo i nomi. La Cri, una delle compagne di viaggio, li saprebbe tutti, con il suo manuale sempre pronto, mentre io no, non ho archivio per i nomi, l’ho sempre detto.

Mi alzo e mi ritrovo con un binocolo in mano, un dito puntato all’orizzonte e un brivido di gioia ed entusiasmo. Chiamo a raccolta tutti i sensi, ancora insonnoliti, e inizio un gioco di ricerca e contatto con varie specie di uccelli, seguita dai nostri uooooo bellissimo! dove dove? ooooooh. Loro, ignari di essere impudentemente guardati dai nostri occhi, continuano la loro vita tra i rami e il cielo. 

Tota e Igua, madre e figlio della comunità Waorani del rio Shiripuno, ci guidano nella selva. Ora Tota utilizza le botas di gomma per camminare, ma lei è abituata a farlo a piedi nudi. Sugli appunti di quei giorni ho scritto tra le riflessioni “i piedi di Tota”: suona quasi imbarazzante immaginare me che fisso i suoi piedi, imbambolata da stupore e ragionamenti. I suoi piedi, però, sono morfologicamente più appigliati alla terra dei miei, sanno muoversi sul terreno con agilità e sono consapevoli dei rischi che corrono. Ci fanno da guida in questa foresta, senza paura, in compagnia del fidato machete sempre pronto a spianarci la strada. Così, ci muoviamo lentamente tra radici, piante di ogni genere e liane. 

Siamo arrivati a Yasuni ieri pomeriggio, dopo un giorno infinito di viaggio. Il Parque Nacional Yasunì è uno dei luoghi più biodiversi al mondo. È una parte (in realtà piccola, sono 9.820 km quadrati) di foresta amazzonica dell’Ecuador che è diventata parco protetto dal 1979. Il territorio è parte di quella che era la foresta abitata da diverse comunità indigene, ora soprattutto dagli Waorani. Al suo interno troviamo una zona inaccessibile chiamata di Isolamento Volontario in cui vivono le popolazioni non-contattate dei Taromenane e Tagaeri. Penso che vorrei essere un uccello, per volare nella foresta e sapere come vivono ancora queste persone, quale conoscenza ancestrale e profonda hanno della foresta, della vita. Sono persone che hanno scelto di continuare a vivere nel loro modo e che si difendono da incursioni esterne con l’uso delle loro armi.

I confini del parco sono concessi invece a compagnie petrolifere. Il contrasto con la foresta vergine è evidente e tangibile: per arrivare all’ingresso sul fiume Shiripuno, bisogna percorrere ore e ore di strada passando per le piccole cittadine del petrolio. Si parte dal Coca, importante porto fluviale della regione di Orellana, e si arriva nella cittadina di Dayuma, nata proprio per ospitare i lavoratori delle compagnie petrolifere. Lunghi tubi kilometrici costeggiano ininterrottamente la strada, battuta da camion enormi evidentemente inadatti a percorrere quelle curve. Dalla macchina vediamo alcune ciminiere di gas di petrolio, los mecheros, che bruciano incessantemente il gas di scarto dell’estrazione. Poi, enormi tanque di grezzo, uomini al lavoro con il classico caschetto giallo e colline verdi puntinate da alberi alti e solitari, prati da pascolo, disboscate. 

Poi questa follia, che ripercorre perfettamente la storia degli ultimi cinque secoli e mostra tutte le nostre contraddizioni, si interrompe una volta saliti su quella canoa rossa di metallo che si inoltra rumorosa nella foresta. Ai margini del fiume, non più tubi e mecheros, ma alberi e uccelli e, se siamo fortunate, scimmie, serpenti, bradipi, rane e caimani. 

Respiro piano. Guardo in alto e con tutta la concentrazione che ho cerco i tucani che mi sta indicando Jarol, la nostra guida: là, su quell’albero, in quella parte di ramo senza foglie, a destra del fiore rosa. A me fa impazzire, non vedo un accidenti, con questo binocolo che mi fa vedere doppio. 

Poi, eccoli là, che saltellano sul ramo, a molti metri di altezza, con il becco bordato di azzurro e giallo, con il loro linguaggio sonoro che riempie la foresta. 

Respiro piano. È uno stupore che non ho mai provato. Una gioia della vita, la vita stessa. La foresta. 


Le foto 2 e 3 sono di Anna Beretta, grazie di cuore.

Autore

  • Maddalena Martini

    Maddalena Martini (1992) è operatrice interculturale e assistente sociale. Più di tutto ama e studia il teatro dell'oppresso, strumento collettivo di liberazione sociale e artistica, e la permacultura, metodo di progettazione del territorio. Scrivere è da sempre il suo più intimo e, ormai non più, segreto dialogo con se stessa.

7 commenti su “Quello che mi resta della selva”

  1. Ferma al terminal del Coca, di ritorno dal Cuyabeno. Poca distanza con Yasuní, stessa selva.
    Bello trovarti nelle parole così vicina

  2. Che articolo meraviglioso. Ogni tanto sono preziosi per risvegliarci dai nostri torpori quotidiani e ricordare quanto è bella la Terra e quanto ingiusti sono gli uomini. Grazie per il tuo Sguardo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto