La protagonista della storia che andrete a leggere non esiste nel mondo reale. Ci piace pensare che un pezzetto di lei viva dentro ogni educatrice del terzo settore perché tutto ciò che state per leggere è un collage di fatti, sensazioni, emozioni, frustrazioni, rabbie, gioie e sofferenze che abbiamo condiviso collettivamente nella fantastica avventura che è il Collettivo delle Educatrici Arrabbiate di Bologna. Nel testo viene utilizzato in molti punti il femminile universale, scelta che il collettivo ha preso dotandola di accezione critica poiché il lavoro educativo è spesso identificato come lavoro di cura che nella nostra società viene a sua volta attribuito ad un ruolo che per “natura” dovrebbero svolgere le donne. Vorremmo sovvertire tutto questo e tanto altro ancora.

We can’t sit back and watch a whole world go down
Jesus Christ! Take a look around
They’re getting away with things we shouldn’t allow
We’re walking around with our heads in a poisonous cloud
Get up and fight – Newtown Neurotics
Sono le 7:40 e la mia sveglia inizia a suonare. Non la imposto quasi mai alle sette e mezzo perché quei dieci minuti in più mi concedono l’illusione di un riposo più lungo.
Con gli occhi che ancora faticano ad aprirsi, la prima cosa che faccio è quella sconsigliata da qualsiasi medico in tutela del nostro cervello. Tastando goffamente il comodino, cerco il mio telefono per disattivare la modalità aereo. Questa notte non ero io reperibile e così ho deciso di prendermi cura della mia persona e premurarmi di non lasciare che nessuna vibrazione mi disturbasse.
Il telefono vibra nervosamente e, tra un buongiornissimo di Zia Carmelina ed un meme sul gruppo delle amiche, eccola spuntare. “La chat di lavoro”. Trentacinque messaggi non letti. Sono sveglia da due minuti e già guardo il soffitto, invocando qualche guida spirituale che possa proteggermi nel corso di questa giornata appena incominciata. Nel frattempo dalla camera ho presto raggiunto il bagno. Non resisto e così alle 07:50, comodamente seduta sul water, apro la chat.
Pare che la mia collega reperibile sia stata svegliata alle tre di notte da un agente di una caserma per andare a recuperare uno dei nostri ragazzi fermato in centro e sprovvisto della dichiarazione che attesta che è ospite della nostra struttura. Lui non ha ancora il permesso di soggiorno ma, trattandosi di un minore, questa dichiarazione gli conferisce una sorta di lasciapassare perché dimostra che è sotto la nostra tutela. Sta di fatto che le è toccato alzarsi e andare a recuperarlo in taxi, altrimenti lo avrebbero trattenuto fino al mio arrivo in turno. Inaccettabile anche solo l’idea di lasciarlo in caserma una notte intera. La mia collega nei mesi precedenti ha lavorato troppo, ha dovuto coprire turni di un’altra collega che si è licenziata da poco e così lavora molte ore in più. Proprio non ci voleva questa chiamata notturna per lei. Sarà l’ennesima reperibilità non retribuita che scivolerà, silenziosamente per molti e dolorosamente per lei, nella famosissima e criticatissima banca ore.
Per chi non sapesse bene cosa sia la banca ore, niente paura, è un concetto molto semplice. Si immagini un grande deposito di ore in surplus che non verranno mai pagate ma che l’educatrice sarà costretta prima o poi a smaltire nel caso in cui il suddetto deposito dovesse ingrandirsi in maniera esagerata. Questo meccanismo si innesca per un motivo altrettanto semplice: l’assenza di soldi a disposizione per poter retribuire le ore di straordinario.
I nostri straordinari coincidono spesso con emergenze piccole o grandi. Nel lavoro educativo possono verificarsi fatti non prevedibili perché, avendo a che fare con l’umano, interagiamo con situazioni che fanno parte della quotidianità: un fermo della polizia, una rissa, un braccio rotto, una febbre alta. Imprevisti. Imprevisti della vita.
Il senso di colpa mi assale. Potevo essere io reperibile al suo posto, cosa avrei fatto se fossi stata sveglia? Avrei finto di non sentire il telefono? Che incubo. Penso allo stesso tempo di esser stata fortunata quando la reperibilità era toccata a me due giorni prima e non era successo nulla. Ed ancora: senso di colpa per aver prodotto questo pensiero. “Ma cosa fai? Auguri agli altri di esser svegliati nel cuore della notte?” mi chiedo.
Mi fermo e prendo un bel respiro. La speranza è di scacciar via, buttando l’aria fuori, questo retaggio del senso di colpa che altro non è se non una trappola che spesso e purtroppo mi trae in inganno. Mi faccio coraggio e dopo essermi lavata preparo un caffè e mangio due biscotti per non dover spendere gli ennesimi soldi in colazioni frenetiche fatte al bar. Quelle colazioni in cui prendo il caffè al banco e un cornetto da portare. Cornetto che ingurgito rapidamente nel tragitto dal bar alla fermata del bus. Nella peggiore delle ipotesi, spendo cinque euro. No, decisamente non posso permettermelo. Lo stipendio arriva a metà mese ed io sono rimasta con cento euro sulla carta. Se c’è del cibo in dispensa è meglio arrangiarsi. La colazione fuori verrà rimandata non appena ci saranno nuovi soldi.
Dal mio posto a sedere in autobus, nel solito tragitto che mi porta a lavoro, guardo spesso attorno a me ed osservo la città. A volte intravedo il riflesso di me stessa nel vetro e mi guardo con attenzione. Sono una io evanescente, come fossi un fantasma. Sono proprio un’ombra! Mi sento invisibile in questa città. Ciò che è diventata Bologna lo percepisco ogni giorno sulla mia pelle. Ultimamente mi piace paragonarla ad una di quelle strane macchine che utilizzano i tennisti per allenarsi; quelle che sputano energicamente palline da tennis.
Bene, immaginate che al posto delle palline gialle ci siano tutte quelle persone che hanno un conto in banca al di sotto dei mille euro. Siamo tante e tanti a far parte di questa macro-categoria. Tra tutte queste soggettività quelle di cui posso raccontare qualcosa siamo noi: le educatrici.
Le educatrici dei servizi scolastici, dei socio-educativi, delle comunità per minori stranieri non accompagnati, dei servizi abitativi; quelle dei servizi domiciliari, quelle delle comunità educative h 24 e quelle dei centri diurni. Le educatrici che lavorano nelle comunità mamma-bambino e quelle che invece si occupano di persone con problemi psichiatrici. Quelle che fanno educativa di strada e quelle che lavorano come jolly; quelle che fanno gli incontri protetti e le educatrici che lavorano con persone disabili.
Vivere Bologna ed essere educatrici è un binomio che inizia ad essere stridente. Il mercato immobiliare è alle stelle e alla domanda delle zie al pranzo di Pasqua “ma perché non ti compri casa?!” io ormai non so più cosa rispondere!
Come faccio a spiegargli che per comprare una casa mi serve un contratto a tempo indeterminato, una busta paga dignitosa e dei garanti? Quest’ultimo elemento lascia intendere poi che i nostri genitori debbano letteralmente garantire per noi. E se qualcuna i genitori non li ha più? E se qualcuna non volesse gravare sulla propria famiglia? E se qualcuna volesse prendere finalmente la propria vita in mano e rendersi indipendente? Bene, in questi casi potremmo tutte convenire sul fatto che abbiamo un piano B. Il piano B sarebbe vivere in affitto. Una stanza singola nella città di Bologna è arrivata a costare tra i quattrocento e i mille euro. Peccato che io ne guadagno novecento di euro. Al mese. Come posso permettermelo?
Ed ecco che mi sento di essere una pallina gialla in coda a tante altre palline gialle in attesa del mio momento. Quello in cui sarò sputata fuori dalla città in cui ho scelto di vivere. Dalla Bologna che tutti mi raccontavano come inclusiva, piena di spazio per tutte e tutti e che, invece, deludendo tutte le mie aspettative e speranze, è stata trasformata nell’ennesima città-vetrina.
Bologna è stata rimpastata in un dolce al miele, studiata a tavolino per esser messa a disposizione dei turisti che, come orsi golosi, vengono a visitarla ammaliati, pronti ad abbuffarsi delle sue bellezze e del suo centro storico brillante. E dove dormono i turisti se non in quegli Airbnb che fino a pochi anni fa erano appartamenti affittati dove abitava magari una famiglia, uno studente, una coppia?
Come da copione, ciò che accade nelle città-vetrina è piuttosto semplice: dei margini nessuno si preoccupa; o meglio è bene che i margini rimangano nascosti dai mille occhi che attraversano il centro. Ecco ancora una volta che mi sento quella pallina da tennis. Ma se mi guardo bene attorno, al mio fianco, tra le forme sferiche e gialle, posso distinguere alcune delle mie colleghe e se metto bene a fuoco anche le persone per cui lavoro! Se ci ripenso inizio a non sentirmi poi così sola e mi chiedo spesso cosa potrebbe accadere se, tutte coscienti di ciò che succede attorno a noi, ci ribellassimo.
La prima cosa che accade, dopo due ore che sono arrivata in struttura e dopo aver fatto le mie chiacchiere con i ragazzi, è iniziare a ricevere le prime telefonate. È la mia coordinatrice. “Alina è in malattia, non può venire a darti il cambio all’una. Resti tu, ok?”. Eh no! Oggi mi ero organizzata in modo differente. Avevo finalmente fissato l’appuntamento dalla mia psicologa dopo mesi che non riuscivo ad incastrarla in nessun buco. Se mancherò sarò costretta a pagare ugualmente la seduta. Sono sessanta euro che, sottratti ai cento rimasti sul conto, mi faranno rimanere con quaranta euro e senza il piacere di aver sfogato il mio senso di frustrazione su quella povera donna. Appunta qualsiasi cosa esca dalla mia bocca e annuisce in silenzio ricordandomi ogni tanto che devi capire quello che cerchi tu, devi ascoltare te stessa! Mi vorrei tanto ascoltare, ma come diamine faccio se ogni volta che provo a farlo qualcuno mi sabota?
Provo a chiedere alla coordinatrice di trovare qualcun’altra spiegando la mia condizione in maniera esplicita ma: “E chi ti mando? Non c’è nessuno, lo sai anche tu che Giada si è licenziata la scorsa settimana. Mi dispiace, non so come poterti aiutare, non possiamo lasciare la struttura scoperta”. Era un mese che avevo organizzato questo cambio. Sono costretta a stringere i denti, ascoltare il mio stomaco che ribolle e tentare goffamente di calmarmi. Il risultato è un fallimento.
Continuo a pensare a quella parola che odio e detesto: flessibilità. Eccola fluttuare nella mia mente e urtare contro la calotta cranica un po’ come il salvaschermo Windows con cui solitamente scrivevo il mio nome bombato. Essere flessibile è il mantra del lavoro educativo, è la parola spalmata su qualsiasi annuncio voi troviate sul web e non. Si tratta di quella famosa e antica pratica dello spremere come un limone le persone, che assumono a loro volta la capacità di riprendere forma umana dopo esser state ridotte a straccio-appallottolato. Ecco cosa è la flessibilità. È solo una stupida scusa per tappare i buchi di un sistema-scolapasta al collasso. Ma com’è possibile che siamo così ridotte?
Seduta alla scrivania dell’ufficio, tra un’email e l’altra, riecheggiano nella mia testa i grandi slogan: Siamo tutte una grande famiglia, agiamo per il bene delle persone, essere educatrice è una vocazione, educatrici si nasce e non si diventa, garantiamo servizi alla persona, non c’è esercizio migliore per il cuore che stendere la mano ed aiutare gli altri ad alzarsi”. Tutto questo è mero e puro slogan!
Cosa significa essere parte di una grande famiglia? Non vorrà mica significare fare leva sullo spirito di sacrificio? Ed ancora, il concetto di famiglia, quell’organo della nostra società su cui qualcuna ha detto troppa famiglia fa male! La direzione che stiamo prendendo non è quella di de-costruirla, criticarla e reinventarla la famiglia? Svincolarla dal suo valore tradizionale che ha generato a conti fatti molti oppressi ed oppresse piuttosto che soggettività libere e non disfunzionali. Ma attenzione, qui non parliamo di volontariato sociale, di vocazione, di piètas ed amore sfrenato verso l’altro. Qui parliamo di persone che lavorano per altre persone. Il lavoro va pagato, tutelato ed anche dignitosamente! Cosa è che spinge molte persone a credere che una educatrice debba sacrificare se stessa per il bene delle persone per cui lavora? Cosa è che spinge a credere che io debba essere flessibile come una fisarmonica? Io, che il sacrificio venga fatto per i ragazzi per cui lavoro, inizio a dubitarne. Penso invece che spesso si diventi come tanti piccoli pezzi di stoffa che vanno a tappare freneticamente quei buchi del sistema-scolapasta di cui accennavo prima.
Chi ne paga le conseguenze però non siamo solo noi, sono soprattutto le persone per cui lavoriamo. Ultimi in questa catena di montaggio. L’obiettivo è fatturare! Mi chiedo dove siano tutti i bei concetti che avevo studiato all’università, dove siano andati a finire tutti i bei propositi e le immagini che avevo creato nel mio cinema fantastico quando stappavo sorridente una bottiglia di prosecco con la corona d’alloro in testa.
Nel mondo delle vetrine ci sono cascate anche le cooperative sociali. Quello che sta succedendo è che i valori del sociale, di cui tanto ci hanno fatto leggere e studiare, faticano a essere applicati.
Si scontrano con una dura realtà in cui la priorità viene data alle risorse ed ai bandi per i quali si lavora compulsivamente e teleologicamente. Il fine non è più la persona bensì raggiungere l’obiettivo finale, giustificare la spesa, fare numeri e incassare. Un lento processo di deumanizzazione verso la rotta aziendale lì dove le persone sono numeri.
Mi sento di aver vissuto e continuare a vivere in un mondo fatto di contraddizioni tra quelli che sono i miei valori, tra ciò che sono stati i miei propositi e quella che è la realtà dei fatti. Dove è finita la mia dignità e dove quella delle persone per cui lavoro? Diventa complesso così vivere una quotidianità lavorativa che va nella direzione opposta a ciò che sento di essere e ciò che penso sia giusto.
Finisco le mie ultime chiacchiere con i ragazzi ma sono distratta ed a volte mi si riempiono gli occhi di lacrime per una rabbia che non so più dove incanalare. A fine turno mi accorgo di avere due chiamate perse da Clara. Sicuramente vorrà propormi di andare a prendere uno spritz in centro con i soldi che non ho mentre ci lagniamo delle nostre sventure lavorative. Anche lei come me è un’educatrice. La richiamo non appena esco dalla struttura. Non posso crederci, mi dà una notizia che mi fa frizzare tutto il corpo. Mi ha detto che questa sera al bar di San Donato c’è l’assemblea di quelle ragazze di cui già mi aveva parlato. Le educatrici arrabbiate. Clara, che le frequenta, mi spiega che hanno chiamato un’assemblea pubblica per ripensare collettivamente a quali possano essere le pratiche di lotta da agire per iniziare a far sentire la nostra voce di lavoratrici del terzo settore e del mondo educativo. Mi dice “Basta, non ne posso più di sentire tutte le tue critiche al sistema e vederti poi reagire come un alghetta moscia. A questo giro o vieni o non ti parlo più!”. Ha ragione. Mi fiondo sul primo autobus per raggiungere il posto dell’appuntamento e mi sento felice, al diavolo la stanchezza! Eccola, Clara mi aspetta vicino al bar. Dietro di lei posso scorgere centinaia di palline gialle.
La rabbia è sovversiva se si collettivizza.
Ciao Ilaria! Condivido pienamente il ” tuo manifesto” che descrive benissimo uno spaccato del mondo del lavoro sociale dove anche io sono ..immersa … grazie per la tua analisi lucida e appassionata….e grazie per l’idea di creare un gruppo….la rabbia è sovversiva se si collettivizza! Sono con te!!!